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Data: 31/08/2002 - Ora: 10:50
Categoria:
Sport
Si tratta di un dato di fatto innegabile, tanto oggettivo ed evidente che La Gazzetta dello Sport, che pure è espressione di uno fra i più grandi gruppi editoriali del Nord, in una inchiesta sul calcio nel Sud, lo ha meritoriamente denunciato e analizzato con dovizia di particolari. "Riprendiamoci la Sicilia. Una terra colonizzata: chi investe arriva da lontano. E adesso c’è chi dice basta", è stato il titolo della prima puntata dell’indagine giornalistica dedicata ala crisi endemica del calcio meridionale. Ma, non c’era bisogno che arrivasse una grande testata del Nord per evidenziare uno stato di fatto che è sotto gli occhi di tutti e che, nonostante ciò, è stato, fino a oggi, considerato con eccessiva "prudenza", se non con reticenza e rassegnazione.
Eppure, per lunghi anni, si è avuta l’impressione che il calcio e la passione sportiva che affollano gli stadi meridionali siano stati utilizzati quasi come un narcotico, teso ad attenuare la tensione sociale che scaturisce da livelli di disoccupazione che hanno sfiorato (e in alcune province superato) la soglia del 30% e, per quanto riguarda i giovani, ormai assestati su inquietanti percentuali vicine al 60%. La vulgata banalizzata e distorta dei manipolatori della storia ricorda il "pane e i giochi del circo" con cui Nerone si sarebbe garantito il favore del popolino romano. Pochi, invece, si sono attardati ad analizzare la funzione di distrazione e di sfogo per le tensioni sociali nel Sud, emarginato e maltrattato, che al calcio è stata attribuita da parecchi decenni a questa parte.
Oggi, a quanto pare, non c’è più neppure la preoccupazione di assicurare al Sud la morfina calcistica che, in passato, ha contribuito a rendere meno insopportabili le conseguenze della sua emarginazione economica e produttiva. Mentre quella meridionale sta cessando di essere considerata come una "questione" e viene, sempre più esplicitamente, presentata come una palla al piede di cui l’Italia padana vorrebbe liberarsi, il Sud viene espulso dal massimo campionato di calcio e relegato nel caotico reticolo di serie, categorie e gironi inferiori che ben si addicono a quella parte della penisola che, fin dal 1860, è stata sempre considerata di serie B.
Di fronte a un simile stato di cose, è necessario rompere gli schemi e immaginare assetti diversi e meno penosamente penalizzanti, così come sul piano politico ed economico, anche su quello sportivo e, nella fattispecie, calcistico. Di qui l’idea di sdoppiare il campionato italiano di calcio in due, dando vita a un campionato che veda impegnate le squadre espressione del potere economico concentrato nel Centro Nord e a un campionato che coinvolga le energie, le risorse e la passione sportiva del Sud. Padania da un lato e Due Sicilie dall’altro, per intendersi. Con gli accorpamenti che le aree intermedie (Lazio e Sardegna, per esempio) volessero preferire rispetto ai due agoni sportivi. Poi, poiché, come si legge nella costituzione, la Repubblica italiana è una e indivisibile, ci potrebbe essere un confronto finale fra i vincitori di ciascun campionato per l’assegnazione del titolo italiano
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A onor del vero, non si tratterebbe di una novità. I precedenti, infatti, sono numerosi e assai significativi. Li indica la storia del calcio italiano. Dal 1913 al 1926, infatti, i campionati di calcio sono stati due. Uno riguardava il Centro Nord e l’altro il Sud. Furono la enfatizzazione nazionalistica e la tendenza livellatrice del fascismo a imporre, pochi anni dopo la marcia su Roma, il campionato unico, che oggi ha portato allo schiacciamento e all’espulsione del Sud dal mondo del calcio che conta, per emarginarlo nella dimensione provinciale che sempre più lo contraddistingue. Le cose andarono avanti in questo modo fino al tragico 1943, quando gli stadi furono spopolati dalla guerra e dalle bombe, rimanendo totalmente deserti l’anno successivo, quando il campionato non ebbe luogo. Nel 1945-1946 si tornò al doppio campionato, ma si trattò di un fatto transitorio. Dal 1947 in poi, infatti, il campionato unico riprese il sopravvento che ha conservato fino al momento in cui l’unica squadra meridionale rimasta a galla è stata quella di Reggio Calabria. Affondata la Reggina, potrebbe inabissarsi anche l’ultimo simulacro di un Sud condannato, almeno dal punto di vista calcistico, a sciogliersi nel nulla come neve al sole.
Eppure il Sud dispone di un patrimonio sportivo di cui sono eloquente testimonianza, oltre che l’unica squadre presente in serie A, le vitali realtà dei club disseminati in serie B (accanto al Napoli, unica squadra meridionale ad aver conseguito lo "scudetto", il Bari, il Catania, il Cosenza, la Salernitana, il Palermo, il Lecce, il Messina), in serie C (il Crotone, l’Avellino, il Benevento, il Giulianova, L’Aquila, l’Acireale, la Battipagliese, il Catanzaro, il Foggia, il Giugliano, il Trapani e il S.Anastasia che, fallito, non è neppure riuscito a iscriversi al campionato) e così via, fino a giungere alle tante società minori, dove mancano i mezzi economici, ma non difettano il valore e l’entusiasmo di migliaia e migliaia di giovani atleti. Queste forze, queste risorse del Sud non possono essere tagliate fuori a priori da un sistema ideato e costruito a uso e consumo di altri.
E’ augurabile che la Federazione italiana gioco calcio (nata a Torino nel 1898, con sedi a Milano, a Bologna e, infine, a Roma) prenda in attenta considerazione il progetto di sdoppiamento del campionato. In caso contrario, potrebbe essere costretta a prendere atto, suo malgrado, della profondità di un fossato destinato a separarla sempre più nettamente dal Sud e del conseguente ridimensionamento della propria rappresentatività sia in Italia che fuori. Ma, il problema dello sdoppiamento del campionato non riguarda solo l’organizzazione presieduta da Franco Carraro. Esso coinvolge anche, se non soprattutto, le società sportive meridionali (grandi e piccole) e le stesse istituzioni che rappresentano le comunità territoriali del Sud. In altri termini, se la Federazione gioco calcio fondata a Torino 104 anni fa dovesse mostrare di essere più padana che italiana, nessuno potrebbe negare al Sud la legittimità di scelte e di forme organizzative autonome. In definitiva, il problema è uno solo: dare un calcio all’emarginazione e liberare il calcio dall’ipoteca di chi pensa di poterlo dominare, anzi che con il generoso impegno degli atleti, con la forza prevaricatrice e oppressiva del potere economico.
Autore: Luca Pede
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