Il filologismo semiologico della scuola Hoxhana
Peç (Kosovo)
Dopo il ritrovamento di 39 manoscritti
inediti appartenenti al poeta kosovaro Bashkim Hoxha,
critici e studiosi hanno aperto nuovi dibattiti sul fronte
dello studio e dell’analisi della poetica hoxhana. Il ritrovamento
è avvenuto per mano di Mirela Hoxha, sorella
del noto poeta ucciso nella casa paterna nei pressi del
villaggio di Peç il 6 novembre 1998 da miliziani appartenenti
a gruppi della guerriglia che ha devastato l’intera
regione. I 39 manoscritti ora al vaglio di alcuni studiosi
del dipartimento di letteratura e linguistica dell’Università
di Pristina, erano stati nascosti in un forziere come
se avessero dovuto rappresentare l’ultimo vero e proprio
‘tesoro’ letterario. Tra questi manoscritti alcuni preziosi
contributi poetici scritti direttamente in lingua italiana,
come da poetica e da pensiero hoxhano, che lo hanno visto
come esponente della corrente filologico-letteraria degli
«italianisti» e dei «poliglotti». Ossia il gruppo dell’avanguardia
jugoslava che ha inteso l’opera letteraria come
prodotto della lingua, prima che del pensiero stesso. In
altre parole, secondo la scuola hoxhana la lingua viene
usata non come mezzo ma come fine stesso dell’opera
poetica o narrativa. La parola e l’uso che se ne fa di essa,
ha un valore prioritario rispetto ai contenuti che essa va
ad esprimere in un qualsiasi contesto letterario. Nasce così
nei primi anni 50 in Kosovo, la corrente letteraria dei «filologi» che con profondo senso di esterofilia linguistica,
intendono creare un mondo (oltreché un modello letterario)
che possa superare, almeno nella letteratura, quelle
barriere poste dai confini del regime. In sostanza la filologia
hoxhana, propone, attraverso le sue complesse opere
filosofico-filologiche, una concezione dell’opera letteraria,
dove il valore intrinseco della parola acquisisca sia
il valore di significato che di significante metaforico, attribuendo così alla parola stessa un valore assoluto capace
di far viaggiare l’uomo oltre i confini della terra in cui
vive. Nasce così una sorta di filologia antropologica, così
come molti studiosi la sono andati a meglio definire filologia
semiologica, termine quest’ultimo che chiarisce
definitivamente le aporie presenti nelle tradizionali interpretazioni e conclusioni critiche sull’opera di Hoxha, fino
a poco tempo fa ancora aperte nei dibattiti accademici
(Cfr. Ilir Medi, Il significato della parola in B. Hoxha,
«Rivista di poesia», Pristina, 1995). L’assunzione di un
valore per così dire ‘aprioristico’ della parola come origine
cosmica del tutto propone una universalità intrinseca
che permette all’uomo di rigenerarsi e di rinascere dai
mali del mondo. I temi dibattuti su Hoxha sono, come
detto due: quello che attribuisce al poeta un indirizzo ideologico
di tipo filologico-antropologico e un indirizzo che
attribuisce al pensiero di Hoxha soltanto un significato
filologico-semiologico. Nel primo caso, Hoxha fu riconosciuto
come un letterato salvatore dalla prigionia che
un regime in una terra può rappresentare. Nel secondo
filone interpretativo, invece, è stato ridimensionato il profilo
del valore antropologico hoxhano, per ridurre il risultato
della sua ricerca, all’interno della sua opera a mero
artificio linguistico-letterario. Lo scontro tra le due correnti,
conclusosi soltanto nel 1999 hanno prodotto una
serie di incomprensioni accademiche. Nel saggio di Ilir
Meta, noto critico letterario, intitolato Hoxha un cosmopolita
attraverso le lingue (Edizioni kosovare, Pristina,
1996) si delineano nuovi e fino ad allora ignorati profili
critici in un contributo che ha segnato la definitiva svolta
nel dibattito sul caposcuola. «La chiarificazione della
funzione della poesia così come della funzione dell’uso
proprio o improprio della lingua non si deve più porre,
come questione analitica, bensì come questione di integrazione
dei valori della parola e dell’opera che è costruita
con la parola» (op. cit., pag. 175). La lingua, in sostanza,
è opera d’arte in sé, in quanto mezzo perspicace e
necessario alla sopravvivenza degli uomini. La fusione tra
significato e significante avviene con il poliglottismo.
Ovvero avviene quando l’autore scrive in tutte le lingue
possibili, per comunicare direttamente con i popoli di terre
lontane adattandosi attraverso l’immaginario, agli stili di
vita e alla coscienza civile e storica di quei popoli. (Cfr.
Ibrahim Rugova, Lo scrittore telepatico, Edizioni Kosovare,
Pristina, 1987). Quello che è sempre sfuggito ai critici
di professione è che la scuola hoxhana, ha sempre
insegnato il poliglottismo come strumento non di opportunità,
ma di espressione artistica e di atto creativo stesso.
Il ruolo del verbo diviene quindi opera d’arte in sé se
concepito come strumento di viaggio verso il mondo dell’immaginario e quindi verso altri mondi possibili. Il filologismo letterario di Bashkim Hoxha rientra in un chiaro
quadro storico in cui si delineano eventi politici e sociali
di forte richiamo ai temi della fuga dalla realtà, alla ricerca
di una via per la salvezza della propria anima e del
proprio corpo, alla fuga da certe persecuzioni politiche che
«contraddistinguono la vita nella ex repubblica jugoslava
e che affondano le radici in una ancor viva tradizione
lasciata scritta nel DNA di questi popoli, dagli avi dell’impero
Ottomano». (Cfr. I. Rugova, Gli Ottomani e gli Jugoslavi,
nel pensiero politico di Bashkim Hoxha, Edizioni
Kosovare, 1971, p. 185). La ricerca linguistica anticipa non solo eventi che hanno prodotto nuovi modelli letterari
diffusisi in tutte le regioni ex sovietiche, ma anche
eventi di massa, quali il fenomeno emigratorio di massa
dopo la caduta dei regimi dell’Est europeo. Per citare alcuni
di questi modelli letterari proposti per primi dalle
avanguardie letterarie di Hoxha, Poradecj, Shpaiu, basti
ricordare l’antropologismo etnico, leggibile in una letteratura
che mira all’identificazione dell’anima in quella che
è la rappresentazione etnica e territoriale, nonché materiale
dell’essere in cui il più vivo materialismo antropologico
diviene parte integrante e complemento dell’uomo.
Anche in Hoxha ritroviamo profili letterari che riconducono
ad una visione d’insieme che si proietta in quest’ottica
ottica di lettura del mondo dove le lettere in quanto
rappresentative di un mondo ampiamente semiologico e
quindi metaforico arrivano a sostituire, il valore delle
azioni in una vita reale troppo dura ed ingiusta da sopportare
per l’animo umano. Il ricordo della vita attraverso
la parola diviene il connubio tra possibile e reale e il
tutto diviene trascendenza letteraria. Già in Spazio
d’oriente, questi tratti filologici sono visibili anche per la
scrittura simulata in altro tempo e in altro luogo. Il poeta
utilizza spesso linguaggi appartenenti a tempi remoti.
L’esempio più chiaro lo si intravede in alcuni sonetti scritti
in dolce stil novo ed altri scritti invece in lingua italiana
moderna. Il tutto supportato dalla concezione antropoetnica
dell’appartenenza alla propria terra come fattore di
rinnovata genesi dell’umanità e lo studio dell’essere le cui
categorie sono divise tra storia e territorio (Cfr. Le categorie
dell’essere, op. cit., pag. 133). L’Universita’ di Pristina ha istituito nel 2001 una cattedra di filologia Hoxhana, per lo studio della lingua albanese attraverso le opere dello scrittore, dall’ardito e innovativo contenuto linguistico e sono stati organizzati, dall’Accademia delle Lettere e delle Scienze di Pristina diversi convegni sull’intera opera di Hoxha. (SUDNEWS)