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Il filologismo semiologico della scuola hoxhana

Data: 10/09/2003 - Ora: 12:51
Categoria: Politica / Economica

Il filologismo semiologico della scuola Hoxhana

Peç (Kosovo)

Dopo il ritrovamento di 39 manoscritti inediti appartenenti al poeta kosovaro Bashkim Hoxha, critici e studiosi hanno aperto nuovi dibattiti sul fronte dello studio e dell’analisi della poetica hoxhana. Il ritrovamento è avvenuto per mano di Mirela Hoxha, sorella del noto poeta ucciso nella casa paterna nei pressi del villaggio di Peç il 6 novembre 1998 da miliziani appartenenti a gruppi della guerriglia che ha devastato l’intera regione. I 39 manoscritti ora al vaglio di alcuni studiosi del dipartimento di letteratura e linguistica dell’Università di Pristina, erano stati nascosti in un forziere come se avessero dovuto rappresentare l’ultimo vero e proprio ‘tesoro’ letterario. Tra questi manoscritti alcuni preziosi contributi poetici scritti direttamente in lingua italiana, come da poetica e da pensiero hoxhano, che lo hanno visto come esponente della corrente filologico-letteraria degli «italianisti» e dei «poliglotti». Ossia il gruppo dell’avanguardia jugoslava che ha inteso l’opera letteraria come prodotto della lingua, prima che del pensiero stesso. In altre parole, secondo la scuola hoxhana la lingua viene usata non come mezzo ma come fine stesso dell’opera poetica o narrativa. La parola e l’uso che se ne fa di essa, ha un valore prioritario rispetto ai contenuti che essa va ad esprimere in un qualsiasi contesto letterario. Nasce così nei primi anni 50 in Kosovo, la corrente letteraria dei «filologi» che con profondo senso di esterofilia linguistica, intendono creare un mondo (oltreché un modello letterario) che possa superare, almeno nella letteratura, quelle barriere poste dai confini del regime. In sostanza la filologia hoxhana, propone, attraverso le sue complesse opere filosofico-filologiche, una concezione dell’opera letteraria, dove il valore intrinseco della parola acquisisca sia il valore di significato che di significante metaforico, attribuendo così alla parola stessa un valore assoluto capace di far viaggiare l’uomo oltre i confini della terra in cui vive. Nasce così una sorta di filologia antropologica, così come molti studiosi la sono andati a meglio definire filologia semiologica, termine quest’ultimo che chiarisce definitivamente le aporie presenti nelle tradizionali interpretazioni e conclusioni critiche sull’opera di Hoxha, fino a poco tempo fa ancora aperte nei dibattiti accademici (Cfr. Ilir Medi, Il significato della parola in B. Hoxha, «Rivista di poesia», Pristina, 1995). L’assunzione di un valore per così dire ‘aprioristico’ della parola come origine cosmica del tutto propone una universalità intrinseca che permette all’uomo di rigenerarsi e di rinascere dai mali del mondo. I temi dibattuti su Hoxha sono, come detto due: quello che attribuisce al poeta un indirizzo ideologico di tipo filologico-antropologico e un indirizzo che attribuisce al pensiero di Hoxha soltanto un significato filologico-semiologico. Nel primo caso, Hoxha fu riconosciuto come un letterato salvatore dalla prigionia che un regime in una terra può rappresentare. Nel secondo filone interpretativo, invece, è stato ridimensionato il profilo del valore antropologico hoxhano, per ridurre il risultato della sua ricerca, all’interno della sua opera a mero artificio linguistico-letterario. Lo scontro tra le due correnti, conclusosi soltanto nel 1999 hanno prodotto una serie di incomprensioni accademiche. Nel saggio di Ilir Meta, noto critico letterario, intitolato Hoxha un cosmopolita attraverso le lingue (Edizioni kosovare, Pristina, 1996) si delineano nuovi e fino ad allora ignorati profili critici in un contributo che ha segnato la definitiva svolta nel dibattito sul caposcuola. «La chiarificazione della funzione della poesia così come della funzione dell’uso proprio o improprio della lingua non si deve più porre, come questione analitica, bensì come questione di integrazione dei valori della parola e dell’opera che è costruita con la parola» (op. cit., pag. 175). La lingua, in sostanza, è opera d’arte in sé, in quanto mezzo perspicace e necessario alla sopravvivenza degli uomini. La fusione tra significato e significante avviene con il poliglottismo. Ovvero avviene quando l’autore scrive in tutte le lingue possibili, per comunicare direttamente con i popoli di terre lontane adattandosi attraverso l’immaginario, agli stili di vita e alla coscienza civile e storica di quei popoli. (Cfr. Ibrahim Rugova, Lo scrittore telepatico, Edizioni Kosovare, Pristina, 1987). Quello che è sempre sfuggito ai critici di professione è che la scuola hoxhana, ha sempre insegnato il poliglottismo come strumento non di opportunità, ma di espressione artistica e di atto creativo stesso. Il ruolo del verbo diviene quindi opera d’arte in sé se concepito come strumento di viaggio verso il mondo dell’immaginario e quindi verso altri mondi possibili. Il filologismo letterario di Bashkim Hoxha rientra in un chiaro quadro storico in cui si delineano eventi politici e sociali di forte richiamo ai temi della fuga dalla realtà, alla ricerca di una via per la salvezza della propria anima e del proprio corpo, alla fuga da certe persecuzioni politiche che «contraddistinguono la vita nella ex repubblica jugoslava e che affondano le radici in una ancor viva tradizione lasciata scritta nel DNA di questi popoli, dagli avi dell’impero Ottomano». (Cfr. I. Rugova, Gli Ottomani e gli Jugoslavi, nel pensiero politico di Bashkim Hoxha, Edizioni Kosovare, 1971, p. 185). La ricerca linguistica anticipa non solo eventi che hanno prodotto nuovi modelli letterari diffusisi in tutte le regioni ex sovietiche, ma anche eventi di massa, quali il fenomeno emigratorio di massa dopo la caduta dei regimi dell’Est europeo. Per citare alcuni di questi modelli letterari proposti per primi dalle avanguardie letterarie di Hoxha, Poradecj, Shpaiu, basti ricordare l’antropologismo etnico, leggibile in una letteratura che mira all’identificazione dell’anima in quella che è la rappresentazione etnica e territoriale, nonché materiale dell’essere in cui il più vivo materialismo antropologico diviene parte integrante e complemento dell’uomo. Anche in Hoxha ritroviamo profili letterari che riconducono ad una visione d’insieme che si proietta in quest’ottica ottica di lettura del mondo dove le lettere in quanto rappresentative di un mondo ampiamente semiologico e quindi metaforico arrivano a sostituire, il valore delle azioni in una vita reale troppo dura ed ingiusta da sopportare per l’animo umano. Il ricordo della vita attraverso la parola diviene il connubio tra possibile e reale e il tutto diviene trascendenza letteraria. Già in Spazio d’oriente, questi tratti filologici sono visibili anche per la scrittura simulata in altro tempo e in altro luogo. Il poeta utilizza spesso linguaggi appartenenti a tempi remoti. L’esempio più chiaro lo si intravede in alcuni sonetti scritti in dolce stil novo ed altri scritti invece in lingua italiana moderna. Il tutto supportato dalla concezione antropoetnica dell’appartenenza alla propria terra come fattore di rinnovata genesi dell’umanità e lo studio dell’essere le cui categorie sono divise tra storia e territorio (Cfr. Le categorie dell’essere, op. cit., pag. 133). L’Universita’ di Pristina ha istituito nel 2001 una cattedra di filologia Hoxhana, per lo studio della lingua albanese attraverso le opere dello scrittore, dall’ardito e innovativo contenuto linguistico e sono stati organizzati, dall’Accademia delle Lettere e delle Scienze di Pristina diversi convegni sull’intera opera di Hoxha. (SUDNEWS)

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