Il primo ministro Ryutaro Hashimoto si è dimesso dopo che il suo partito liberaldemocratico sono usciti pesantemente sconfitti dalle elezioni parziali di ieri. E ora si apre una fase incerta, di difficile gestione, ma che può preludere a un cambiamento finora cercato invano. (MN)

In circostanze normali, le elezioni per il rinnovo di metà della Camera alta (o dei Consiglieri) non avrebbero certo impensierito un primo ministro giapponese, che disponesse della maggioranza nella Camera bassa (o dei Rappresentanti). Ma queste non sono circostanze normali per il Giappone, e indirettamente per il resto dell'Asia e del mondo. L'economia giapponese (seconda solo a quella americana e di gran lunga la prima in Asia) affronta la crisi più grave del dopoguerra, e scricchiola seriamente anche il sistema politico. Così queste elezioni parziali sono diventate un test cruciale.
Il verdetto per Hashimoto e per i liberaldemocratici (l'eterno partito di maggioranza nipponico) è stato peggiore di quanto si potesse ragionevolmente pensare. La recessione, la disoccupazione crescente, il quasi-collasso del sistema finanziario, un intreccio perverso tra affari e politica, e fors'anche un senso di caduta del prestigio del Paese, sono confluiti in un giudizio pesantemente negativo. La crisi giapponese, tuttavia, non riguarda tanto questo o quel governo, quanto il "sistema Giappone" nel suo insieme. Un sistema che sembrava quasi infallibile, fondato sul consenso sociale e sulla cooptazione politica, ma che alla lunga ha pagato lo scotto della sua rigidità, dello scarso spirito d'innovazione, e dell'immutabilità, quasi della mummificazione, della sua classe dirigente. Un sistema praticamente monopartitico, a democrazia bloccata, senza alternative credibili, un po' come la Prima Repubblica italiana, con analoghi effetti di corruzione diffusa.